21 de maio de 2010

Diario delle giornate di Torino 4

DIARIO DELLE GIORNATE DI TORINO #4

I paradossi della colpa

L’orizzonte dell’inconscio può essere un buon viatico per la politica, minata come non mai da una grave crisi di rappresentatività e scossa da una sequela di scandali che sembra non arrestarsi. Per cominciare a orientarsi si può dire che la configurazione attuale della civiltà è la risultante della forma di discorso che nella nostra epoca fa da collante alla convivenza sociale; forma caratterizzata - come affermava Lacan in un suo celebre intervento degli anni ’70 davanti a una telecamera televisiva - dall’ascesa allo zenith sociale dell’oggetto a: in breve, dall’irreversibile allentamento delle maglie del registro simbolico nella sua secolare, tradizionale funzione di regolare, ripartire e tamponare il godimento pulsionale del singolo e, per ciò stesso, di favorire e predisporre il suo legame con l’altro. Se si resiste alla facile sirena della restaurazione, che potrebbe apparire la via obbligata per porre rimedio alla disgregazione e al disfacimento, l’analisi impietosa e spregiudicata di questo nuovo assetto della civiltà, che non risparmia ormai nessun ambito della nostra esistenza individuale e collettiva, può invece suggerirci – imponendo una salutare epoché all’agire per l’agire a tutti i costi - diversi interrogativi.

Il primo di questi interrogativi è se il sempre più diffuso senza limite, in tutte le sue multiformi declinazioni - spudoratezza, corruzione, depravazioni ecc… – non sia una sorta di inconscio appello al limite. Insomma gli scandali ignominiosi in cui sembra che le nostre classi dirigenti stiano letteralmente per sprofondare, non sarebbero forse lo stridente risvolto di un cupo e massiccio senso di colpa, ancorché completamente obliterato? Saremmo dunque in realtà, a dispetto dell’apparente disinvoltura dei nostri costumi, immersi più che mai nell’universo morboso della colpa, secondo la felice, famosa espressione di Angelo Hesnard? Già da un pezzo, del resto, avevamo dovuto prendere atto che il miraggio dell’affrancamento dai divieti, per andare finalmente incontro a un piacere presunto naturale, ovvero senza più la zavorra della colpa, si era risolto in un epocale fallimento, ché anzi la decolpevolizzazione su larga scala ha determinato un incremento generalizzato dell’angoscia, come notava Lacan nell’intervista a Panorama del 1974. Insomma, questa flagrante assenza di colpa, che fa mostra di sé nell’improntitudine e nella temerarietà con cui sembra ci si faccia beffe di ogni regola, nasconde forse un’inquietante, inedita esacerbazione della colpa?

La colpa in effetti è qualcosa che accompagna l’esperienza umana come un’ombra, e tanto più quanto più sembra neutralizzata, silenziata, anestetizzata. Essa è senza dubbio il retaggio dell’umanità. Non è solo la Bibbia a ricordarcelo nel memorabile racconto del peccato originale. Nel Novecento, per esempio, Heidegger e Jaspers hanno riproposto in termini nuovi questa grande, antica tematica delle religioni e della speculazione filosofica. Per il primo la colpa è connessa ad un “non”, al non potersi comprendere dell’uomo nel “donde e nel dove”; ciò in quanto egli è gettato nel mondo in vista di un progetto che, proprio per realizzarsi, esige che egli non si progetti su altre possibilità; dunque, per Heidegger la colpa è radicata nell’infondatezza dell’esistenza. Jaspers, per parte sua, colloca la colpa tra le situazioni limite dell’esistenza: tanto l’azione quanto la non azione implica delle conseguenze, per cui in ogni caso l’essere è colpevole.

Freud si inserisce in questo importante filone, spostando però l’accento dalla colpa al senso di colpa. Nelle opere del primo periodo, come ad esempio Azioni ossessive e pratiche religiose del 1907, egli fa del senso di colpa la percezione che nell’Io verrebbe a corrispondere all’azione del Super-io - ovvero alla critica, ai rimproveri del Super-io - istanza che secondo Freud viene a costituirsi attraverso l’assunzione degli interdetti parentali al tramonto dell’Edipo. Dopo aver inizialmente situato il senso di colpa nell’inconscio, Freud più tardi specificherà – risolvendo così la contraddizione intrinseca al concetto di un senso di colpa che si avverte ma che sarebbe nondimeno inconscio - che la causa della colpa è inconscia sicché ad essere conscia sarebbe solo la sensazione di colpevolezza.

La riflessione freudiana sul senso di colpa procede tra una fitta serie di paradossi. Da un lato, come ci insegna Totem e tabu, il senso di colpa gioca un ruolo essenziale nella costituzione delle società umane: è qui che il senso di colpa appare come il derivato della rimozione del complesso di Edipo. Al contrario, ne L’Io e l’Es il senso di colpa, anziché costituire, parrebbe piuttosto sovvertire l’ordine sociale. Freud infatti si confessa sorpreso di scoprire che un aumento incontrollabile del senso di colpa può fare di un uomo un criminale, quasi che si provasse sollievo a collegare il senso di colpa inconscio a qualcosa di reale e di attuale. A margine, Freud collega questo senso di colpa con la reazione terapeutica negativa e con la soddisfazione nello stato di malattia. Questo punto di vista illumina un altro importante paradosso della colpa, ossia quello per cui la colpa non è placata dalla rettitudine e dall’osservanza della legge dato che, come Freud rileva espressamente nel Disagio della civiltà, più l’individuo è virtuoso e più è schiacciato dal senso di colpa.

Tale articolazione tra la colpa e la legge, in perenne bilico fra una colpa che genera la legge e una colpa che la viola per invocarne l’intervento, non è che una parte della questione, e tuttavia risulta già di grande interesse al fine di orientare potentemente la nostra riflessione sullo stretto legame che sussiste tra legge e colpa. Gli echi paolini qui diventano davvero un riferimento obbligato, dalla legge che mi ha reso peccatore alla felix culpa.

E tuttavia la riflessione psicoanalitica sulla colpa conduce inevitabilmente al di là. In Lutto e melanconia del 1915, la colpevolezza per Freud non è più una sensazione, quanto piuttosto la constatazione di un’indegnità totale, senza appello, una vera e propria denuncia sporta contro l’Io. Siamo davanti a un delirio megalomanico a rovescio, interamente centrato sulla rovina. Al contrario del nevrotico ossessivo, altro grande prototipo di colpevole, il melanconico non si difende contro la colpevolezza, ma si sottomette alle più feroci punizioni da essa derivanti. Freud mostra che questa constatazione implacabile si rivolge all’oggetto perduto, inglobato per identificazione nell’Io. Ancora su questa linea di progressiva de-semantizzazione del senso di colpa, in Analisi terminabile e interminabile del 1937, Freud afferma che una parte dell’accanimento ad autodistruggersi potrebbe essere imputato alla sola pulsione di morte, slegata dal Super-io. Con quest’ultima ipotesi di una pulsione di morte che agisce silenziosamente e del tutto dissociata dalla storia edipica, Freud postula nella colpevolezza qualcosa di reale, al di là di una giustificazione riconducibile ad una qualsivoglia significazione.

Freud dunque, uscendo di scena, ci consegna questo ingombrante, imbarazzante lascito di un reale oscuro con cui l’umanità deve sapersi destreggiare; compito questo che la nostra civiltà – post-moderna, iper-moderna, post-industriale, chiamiamola pure come più ci aggrada – rende però oltremodo arduo. Potremmo dire che è proprio da qui, da questo punto di arrivo freudiano, che muove Lacan, sviluppando un’originale riflessione sul senso di colpa, ricca per noi di spunti preziosi e stimolanti. Non possiamo non accennare alla celebre formula lacaniana del senso di colpa: si è colpevoli di una sola cosa, aver ceduto sul proprio desiderio. Si tratta di un aforisma criptico, che esige certamente un’adeguata decifrazione… non diversamente dalla decifrazione necessaria ad isolare la causa – assolutamente singolare – di questo desiderio su cui non bisognerebbe cedere, per non essere inghiottiti dalla palude della colpa. Ecco perché il discorso psicoanalitico, il solo che può condurre l’essere parlante nei meandri di questa faticosa decifrazione - decisiva per un’economia meno soffocante e mortifera della colpa - si candida a essere l’interlocutore fondamentale di una civiltà il cui peccato più grande si chiama: non volerne sapere più dell’inconscio. Un peccato che si paga sempre a caro prezzo.


Carmelo Licitra Rosa


Link per il convegno: http://tutto-torino.blogspot.com/

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