Un sostegno… alla logica dell’inconscio.
Vorrei
intervenire scambiando una riflessione su di un episodio che riporto
relativamente ad un’esperienza che porto avanti in una scuola superiore
con un ragazzo autistico, che nel pomeriggio frequenta un centro
cognitivo-comportamentale per il trattamento dei soggetti affetti da
autismo.
Prima di parlare di questo episodio è necessario che inquadro
brevemente questo lavoro: si tratta di un servizio di educatore di
sostegno che ho iniziato nel 2008, quando la coop. per cui lavoro ha
vinto la gara d’appalto in questa scuola. Da quella data la scuola mi
ha sempre chiesto la mia disponibilità a continuare il lavoro iniziato
con Fabio.
L’episodio in questione è stato per me un momento
importante del primo anno di lavoro, avvenuto dopo la metà dell’inizio
dell’anno scolastico quando si erano già verificati alcuni piccoli
movimentI rispetto alle difficoltà incontrate con Fabio. Si trattava di
un incontro con tutte le figure istituzionali che si occupavano del
caso di Fabio, compresi i genitori. In quell’occasione è stato
possibile per me far riconoscere l’importanza e le difficoltà di un
attività che avevo iniziato da qualche tempo con Fabio: guardare i
cartoni animati al computer in una stanza della scuola riservata al
lavoro con soggetti in difficoltà. Prima di iniziare quest’attività,
Fabio si muoveva quasi incessantemente tra un posto e l’altro della
scuola, senza fermarsi quasi mai, tappandosi le orecchie con le mani.
Durante questi movimenti, a volte si fermava e ripeteva in modo
incomprensibile una serie di frasi dei cartoni animati, senza
possibilità di inserirsi in questo monologo. Se si insisteva troppo
Fabio dava uno schiaffo e poi se andava via. In quell’incontro è stato
deciso che era possibile guardare i cartoni al computer ma solo nel
laboratorio che avevo costruito con Fabio, per due ore la settimana in
una giornata precisa e stabilita. Durante quell’incontro ho anche
cercato di spiegare cosa facevo durante il laboratorio, non si trattava
di guardare i cartoni e basta, ma l’intento era di cercare di inserirsi
in quel monologo in un modo però che Fabio potesse accogliere senza
dover scappare o agire con lo schiaffo. Così raccontai che nel
laboratorio, mentre Fabio guardava i cartoni, io scrivevo quello che
Fabio diceva, avevo lo sguardo rivolto altrove rispetto al monitor del
computer e inoltre facevo seguire ad ogni detto di Fabio un mio detto
che potesse creare un legame con quanto aveva detto lui, come se
stessimo scrivendo un copione teatrale. Alla fine del laboratorio
firmavamo entrambe i fogli scritti aggiungendo anche la data.
Dopo
quell’incontro, nel tempo fuori dal laboratorio, Fabio ripeteva molto
meno di frequente le frasi dei cartoni animati, inoltre quando lo
faceva lo diceva in modo comprensibile e significativo, come ad
esempio: “Perché ve la prendete sempre con me?”. A volte rispondeva a
quello che gli chiedevo, oppure era più permeabile agli interventi che
facevo rispetto a questi detti. In alcune occasioni poi invece di
ripeterle semplicemente, me ne parlava, ad esempio un giorno mi aveva
detto: “Io guardo il topolino che tiene le nocciole con la mano”.
Inoltre, ora aveva un posto dove poter fermarsi senza dover muoversi
continuamente da un posto all’altro, infatti quando gli era impossibile
stare in classe invece di girare per la scuola stavamo in questa
stanza, anche senza che fosse necessario guardare i cartoni animati.
Trovo che l’episodio riportato mostra come sia possibile a volte far
passare che dietro certi fenomeni in apparenza insignificanti e senza
valore, quando non considerati semplicemente da eliminare, ci può
essere una logica di cui possiamo servirci per rispondere a quei
fenomeni in modo calibrato, su misura, tenendo conto del soggetto con
cui abbiamo a che fare. Così, guardare i cartoni animati può diventare
un lavoro importante in grado di regolare e rendere più vivibile un
mondo che altrimenti risulta totalmente caotico e insopportabile: per
Fabio possiamo dire che il linguaggio era ridotto ad un semplice
ritornello senza senso da ripetere continuamente, tuttavia al di là di
questo ritornello era possibile ipotizzare il lavoro di un soggetto che
cercava di trattare a modo suo qualcosa di insopportabile.
Concludo
così: spesso la difficoltà più grande può essere quella di perdere di
vista quel lavoro perché troppo preoccupati di rispondere al meccanismo
istituzionale. Inoltre c’è un ulteriore difficoltà: quella di riuscire
a trasmettere la logica di quel lavoro in una lingua, in un modo, che l’
altro possa accogliere se non fare propria e mettere in pratica. Questo
quando l’altro con cui si ha a che fare non è nella posizione di non
voler sapere nient’altro di quello che già sa
Omar Battisti
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