di Roberta La Barbera
Daniele è un ragazzino di 11 anni che arriva al Centro di Riabilitazione, presso cui lavoro come consulente psicologa, con una diagnosi di Grave ritardo nello sviluppo psicomotorio e con una richiesta di inserimento in regime di seminternato. Daniele non cammina, è seduto sulla sedia a rotelle e non parla; emette delle grida assordanti, si picchia molto spesso e assume delle posizioni del corpo da contorsionista, per esempio, riesce a portare le gambe dietro la testa. Daniele è aggressivo con sé e con gli altri, se qualcuno gli si avvicina lo morde provocando delle ferite, gli sputa o tira i capelli fino a staccarne delle ciocche. Poiché si picchia a sangue i genitori gli hanno messo alle mani dei guanti con dei laccetti che legano alla sedia a rotelle in modo da immobilizzargliele. Per quanto il caso sia molto grave decido di iniziare con Daniele un trattamento individuale. Nella mia stanza lo faccio sedere su un tappetino. Cerco di non guardarlo, perché ogni volta che lo faccio si picchia di più. Gli tolgo i guanti e gli metto le mani dentro le maniche della felpa in modo che picchiandosi non si faccia molto male, anche se in realtà Daniele non esprime il minimo dolore. Lacan afferma che nell’autismo vi è qualcosa che si “gela”, qualcosa che a livello simbolico non ha funzionato e che imprigiona il bambino e che non gli permette di “far suo” il linguaggio nel quale si trova immerso fin dalla nascita. Le ripetizioni, le ecolalie, tipiche della psicosi, così come il parlare con le parole dell’Altro sono il segno che nella psicosi le parole, i significanti, che il soggetto utilizza non sono indirizzati all’Altro, non servono a rappresentare il soggetto, a dire qualcosa del soggetto ma sono una pura ripetizione, ripetizione di qualcosa che non si è iscritto nell’ordine simbolico. È opportuno, allora, nel trattamento dei bambini psicotici inserire un’ alternanza, un “uno” e un “due”, alternanza che è già qualcosa dell’ ordine del significante. Per far ciò, nel trattamento di Daniele, faccio seguire sempre un “due” al suo “uno” e quindi ogni volta che Daniele emette un suono o fa un verso, io scrivo i versi che fa, ripetendoli ad alta voce, introducendo così un ritmo, un “uno/due” o un “più/meno” che ottiene un effetto pacificante al punto che Daniele quasi sempre smette di picchiarsi. A volte si avvicina a me, strisciando sul tappetino, fino a poggiare le sue gambe sulle mie, e rimane così per tutto il tempo della seduta. Spesso si abbassa fino a mordermi la gamba, io dico in maniera enfatica “che dolore”, “ahi, che male” e lui sorride. Questo tipo di trattamento, proseguito per alcuni mesi, lo tranquillizzava, però, solo quando era nella mia stanza, ma quando tornava in classe le insegnanti e le terapiste non sapevano come pacare le sue urla e la sua aggressività. Decido a questo punto di fare un altro tentativo. Ispirandomi alla “pratica à plusieurs” inventata da Antonio Di Ciaccia all’Antenne 110 di Bruxelles ed avendo trovato delle insegnanti molto motivate, inizio a lavorare con loro. La pratica à plusieurs, però, non è un altro modo per definire l’équipe multidisciplinare. La differenza di termini indica, invece, una differenza radicale che in primis è una differenza di ordine etico. La psicoanalisi, infatti, non trova il suo punto di partenza in una “norma” alla quale l’individuo debba adattarsi, il suo obiettivo non è un trattamento di tipo “ortopedico”, volto a rimettere in asse qualcosa di deficitario. La psicoanalisi punta all’emergere del soggetto, del soggetto dell’inconscio e per far questo la cura prende avvio proprio da quelle che possono essere le produzioni del soggetto, anche quando queste sono l’ “accendi/spegni” di un interruttore. Il programma terapeutico, allora, la strategia di intervento in un’istituzione in cui si attua la pratica à plusieurs, non parte dall’esterno, da un sapere precostituito sul soggetto (un bambino di tale età deve conoscere i quattro colori fondamentali, deve pronunciare un determinato numero di parole, etc.) ma parte da un sapere seppur embrionale, seppur abbozzato ma che tuttavia è prodotto da quel soggetto ed è un sapere unico, singolare. Nell’istituzione in cui lavoro, la pratica à plusieurs non può essere applicata in toto, innanzitutto poiché non tutti gli operatori hanno il medesimo orientamento teorico, non tutti hanno una formazione di tipo psicoanalitico e soprattutto ognuno di loro ritiene di avere già un sapere che non vuole mettere in discussione. Ma le insegnanti con cui ho fatto un “buon incontro” che non possedevano un sapere precostituito sulla psicosi e sull’autismo, mi hanno chiesto aiuto perché desideravano solo lavorare con Daniele, aiutarlo a trovare un po’ di pace e ad aprirsi di più al mondo. Parlo loro, dunque, della pratica à plusieurs e decidiamo di tentare di metterla in atto seppur in maniera “parziale”, cioè non coinvolgendo tutti gli operatori del centro, purtroppo, ma limitandola al luogo e al tempo della scuola. Decidiamo di incontrarci una volta alla settimana per discutere di ciò che è accaduto con Daniele, per porre in luce eventuali difficoltà e pensare a nuove strategie da mettere in atto nel lavoro con lui. Prima del mio intervento con loro, le insegnanti si avvicinavano molto a Daniele, gli parlavano, lo guardavano e questo loro interessamento sortiva un effetto per loro sorprendente perché Daniele invece di tranquillizzarsi, si innervosiva di più, urlava e si picchiava ancora di più. Racconto loro, a tal proposito, che nel corso della Conferenza sul sintomo che Lacan ha tenuto a Ginevra, nel …., un uditore gli dice che gli autistici non arrivano ad intenderci, e Lacan gli risponde “non arrivano ad intendere quello che lei ha da dire loro, in quanto se ne occupa”. Suggerisco loro, quindi, di “occuparsene” un po’ meno, facendosi sì partner di Daniele ma assumendo la posizione di un Altro che non gode di lui. Suggerisco, allora, alle insegnanti di modificare il loro atteggiamento e nell’essere “attentamente distratte” smettere di parlare direttamente a Daniele perché altrimenti si percuote ed iniziare a parlare di lui tra di loro, ma parlarne. Daniele inizia ad essere presente nel loro discorso, lui le ascolta e pian piano si rasserena. In un’occasione, un’insegnante sta giocando con due bambini, tira loro una pallina ed essi devono tirarla a loro volta, Daniele è vicino, sembra non attento, ma in un momento in cui la maestra coglie il suo sguardo gli tira la pallina. Daniele inizialmente la guarda, poi la prende e la tira a terra, le insegnanti, allora, iniziano a battere le mani e a cantare una canzone che cantano ogni volta che vogliono lodare un bambino. Daniele sorride. Un’altra volta, una maestra stava mangiando un cracker e decide di offrirne uno a Daniele. Fino a quel momento, il ragazzino non ha mai mangiato da solo, è sempre stato imboccato da una persona che doveva stargli dietro mentre gli dava da mangiare, altrimenti Daniele iniziava a sputare tutto quanto. La maestra gli porge il cracker ma Daniele non lo prende, lei allora glielo posa sulla sedia, solo a quel punto il ragazzino lo prende ed inizia a mangiarlo; quando finisce si gira verso le insegnanti, come a chiederne ancora. Daniele, infatti, domanda, ha una modalità particolare di farlo: guarda la persona ed apre la bocca dicendo “eheheheheh”. Quando fa questo noi sappiamo che ci sta domandando qualcosa, il problema è che siamo noi che non riusciamo ad intenderlo e quindi a volte ci ritroviamo a dire “cos’è che vuole Daniele?”. Delle parole e degli atti hanno fatto sì che si desse spazio al soggetto e questo ha prodotto in Daniele una pacificazione che mesi prima sembrava irraggiungibile. “Bisogna non cedere sul desiderio di scommettere sull’ esistenza del soggetto laddove tutto permetterebbe di dimenticarlo molto facilmente” , questa frase di E. Laurent si trova nella sua introduzione ai numeri 9 e 10 della rivista Préliminaire dedicati alla pratique à plusieurs. Nel trattamento di Daniele solo dopo molto tempo ci siamo ritrovati a chiederci qualcosa circa i suoi gusti alimentari, circa il senso delle sue produzioni verbali, delle sue grida, solo quando facendoci suoi partner abbiamo lasciato spazio ad un soggetto che apparentemente sembrava non esserci o che dimenticavamo ci fosse. 1) Il centro presso cui lavoro è un centro di riabilitazione per ragazzi disabili dai 6 ai 21 anni, affetti da varie patologie neuropsichiatriche e psichiatriche, che li ospita in regime di seminternato dalle 8.30 fino alle 15.40, tutti i giorni esclusa la domenica. All’interno del centro, convenzionato con la Asp, i ragazzi effettuano terapia occupazionale, sedute di fisiokinesiterapia, di logopedia, di neuropsicomotricità. Il trattamento psicologico non viene indicato dalla Asp, ma offerto dal centro a tutti i ragazzi. 2) Il centro presso cui lavoro, infatti, ospita un distaccamento della scuola elementare per garantire il diritto allo studio anche ai bambini in seminternato. Quindi per ogni bambino, in età scolare, alle attività riabilitative quali FKT, PSM, LOG, è affiancata anche l’attività didattica, svolta da insegnanti di sostegno. 3) Laurent E., “Plusieurs”, in Préliminaire, n. 9/10, Bruxelles 1998, pag. III
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