14 de outubro de 2011

SLP-Corriere: Dibattito Forum


Forum SLP

Sempre in crisi

Carmelo Licitra Rosa


Il termine “crisi” è di origine medica. Esso indicava nella tradizione ippocratica la trasformazione decisiva che interviene nel punto culminante di una malattia e che ne orienta il corso in senso favorevole o sfavorevole.

Nell’epoca moderna il termine “crisi” è stato esteso a significare una trasformazione decisiva che si produce in ogni aspetto della vita sociale. Secondo la visione di Saint-Simon e di Comte, come pure di altri positivisti, l’intera epoca moderna è un’epoca di crisi, nel senso che essa non avrebbe ancora raggiunto la sua organizzazione definitiva intorno ad un principio unico, che dovrebbe essere dato dalla scienza moderna, pur essendo essa innegabilmente avviata a realizzare inevitabilmente tale organizzazione. Sullo sfondo di tale tesi si riconosce la teoria di Saint-Simon secondo cui il progresso della storia è dominato da una legge generale che determina la successione di epoche organiche e di epoche critiche. L’epoca organica è quella che riposa su un certo sistema di credenze e che progredisce in esso. Ad un dato momento però questo progresso fa mutare l’idea centrale su cui è imperniato il sistema stesso, avviando con questa instabilità l’inizio di una fase critica. In tal modo ad esempio, l’organicità del Medioevo sarebbe stata messa in crisi dalla Riforma e dalla nascita della Scienza moderna.

Ma la diagnosi di crisi formulata dai positivisti è a ben vedere la stessa di tutti coloro che, filosofi e intellettuali della più diversa estrazione, si sono atteggiati a profeti del nostro tempo. Tanto i paladini del comunismo quanto quelli delle più diverse palingenesi concordano nel giudicare l’epoca presente come un epoca di crisi e nell’attribuirne la causa alla mancanza di organicità, cioè di uniformità nei valori e nei modi di vita.

L’ideale di un’epoca uniforme, organica, fu teorizzato da Ortega Y Gasset ne Lo schema delle crisi (1933), come mito consolatorio in cui amano rifugiarsi le generazioni che hanno smarrito il senso della sicurezza.

Dunque ogni speculazione sulla crisi è contaminata da un’impronta mitica latente, che diventa poi palese quando ad essa si accompagna l’annunzio dell’avvento di un’epoca organica, quale che essa sia.

Cosa può dire la psicanalisi di questa condizione, a questo punto permanente, di crisi?

La crisi, ciò che si chiama crisi, è da mettere in rapporto con la faglia permanente del discorso, secondo la struttura che ce ne ha dato Lacan: la faglia ovvero il buco che si scava tra verità e produzione in modo inevitabile. Infatti “la struttura di ogni discorso necessita in esso una impotenza, definita dalla barriera del godimento, differenziata com’è di volta in volta come disgiunzione, sempre la stessa, fra la sua produzione e la sua verità”[1].

Questa definizione generale, sotto la cui lente leggere la crisi in senso lato, la crisi permanente del discorso umano, deve tuttavia essere ristretta per essere calata nel contesto particolare in cui viviamo, contesto regolato non più dal discorso del padrone ma dal cosiddetto discorso del capitalista, che ne ha preso il testimone. Dice Lacan nel suo intervento di Milano nell’anno 1972 intitolato Del discorso psicanalitico: “Non vi dico assolutamente che il discorso capitalista sia debole, al contrario è qualcosa di pazzescamente astuto, vero? Molto astuto, ma destinato a scoppiare. Insomma è il discorso più astuto che si sia mai tenuto. Ma destinato a scoppiare. Perché è insostenibile. […] Basta perché proceda come su delle rotelle, non potrebbe correre meglio, ma appunto va così veloce da consumarsi, si consuma fino a consunzione”[2].

Le impasses, gli inciampi, i drammi che vogliamo sottintendere sotto l’etichetta generale di crisi beneficeranno di una lettura che, astraendosi dal sociologico, dal politico e dall’economico, ponga in primo piano la struttura, ovvero l’impasse in quanto tale, del discorso capitalistico nella fattispecie: l’impasse, ossia ciò che Lacan chiama in modo molto semplice la tendenza di questo discorso a “scoppiare”.

Oltretutto, una lettura strutturale ci permette di allargare la prospettiva per includere dentro la nostra analisi non solo le mancanze, che la crisi impietosamente ci mette davanti, ma anche i suoi concomitanti addentellati di eccesso, di sovrappiù, che pure essa parimenti ostenta, giacché, “lo sfruttamento del desiderio è la grande invenzione del discorso del capitalista” (ibidem pag. 229).

In effetti c’è una correlazione “tra l’epoca capitalista e l’estensione del discorso analitico. E il progresso che ne risulta è certamente di tutt’altro genere da quello della conoscenza: è quello che chiamerei il rigore logico”(ibidem. Pag 215). Il contributo della psicanalisi è dunque prezioso per sciogliere i nodi inestricabili che il panorama della crisi pone sotto il nostro sguardo inquieto. L’occasione è propizia per proiettare uno sguardo d’insieme: tutto il mondo occidentale, che ha vissuto sotto l’insegna trionfalistica dell’economia capitalistica, tira la corda e offre segnali di cedimento, di difficoltà, multiformi certo ma tutti dell’ordine di un logoramento.

È quindi l’occasione idonea per riprendere alcune indicazioni di Lacan per una lettura strutturale dei fenomeni. Se ne vedrà tutta l’attualità, ed è questo l’omaggio più grande che contemporaneamente possiamo rivolgere alla ricerca acuta e penetrante del grande maestro, a trent’anni dalla sua morte.


[1] J. Lacan, Radiofonia, in Radiofonia. Televisione, Einaudi, Torino 1982, pp. 50-51.

[2] J. Lacan, Del discorso psicanalitico in Lacan in Italia, La Salamandra, Milano 1978, p. 196)

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