Il significante «vittima» segnala la prossimità di un reale intrattabile per il soggetto nel momento in cui egli ne assume il nome, spesso in circostanze sciagurate. Questo impone più tatto possibile nel domandarne la portata o lo statuto.
La telecamera di Olivier Pighetti non manca di pudore nè di delicatezza per filmare ciò che Odile Zuliani-Goudemez attraversa dopo lʼassassinio dei suoi tre bambini, il giorno del suo anniversario, da parte di suo marito che in seguito si è suicidato [1].
Lungi dallʼoscenità che solitamente caratterizza il trattamento mediatico di molti eventi, il documentario segue il tempo dei suoi interrogativi, rispettando i silenzi, senza insistere sulla sua afflizione ma senza più mascherare lʼestrema solitudine a cui un tale dramma riduce. «Ho lʼimpressione di essere unʼappestata», dice lei. Dopo lo slancio di solidarietà manifestatosi al momento dei funerali, la gente non sapeva più come avvicinarla, nè domandarle semplicemente come va. Sul bordo dellʼabisso, i sembianti ordinari non tengono più.
Proprio per non rimanere espulsa fuori dal significante, ma per ritrovare un posto nella comunità dei viventi, tre giorni dopo il dramma, Odile accetta di essere filmata. Tenta di costruire una nuova finzione con questa decisione che potrebbe sembrare impudica. Vuole cogliere nellʼaprès-coup come è potuto accadere, individuare i responsabili, e forse attraverso questa testimonianza permettere che altre famiglie sfuggano a un destino simile. Tuttavia ciò che è davvero decisivio in questo atto è ciò che si situa allʼopposto del suo sintomo, lei che ha taciuto così a lungo ai suoi familiari lʼinferno quotidiano che il marito le faceva subire, sforzandosi piuttosto, colpita dalla vergogna, di mostrare a tutti lʼimmagine di una coppia perfetta.
Odile aveva smesso di tacere due anni prima, quando suo marito aveva tentato di strangolarla. Lei aveva sporto querela; lui aveva ricevuto otto mesi di prigione con rinvio e obbligo di cure. Quando ci era ricaduto un anno più tardi, questo era stato segnalato invano, e lei lo aveva definitivamente lasciato. Si misura il suo coraggio con qualcosa di allusivo nel reportage in cui lei si domanda se avrebbe potuto agire diversamente.
Avrebbe dovuto mantenere il silenzio? Accettare il reportage è una risposta: no. Odile persevera e sottoscrive. Facendo questo rifiuta anche una colpa intollerabile e, propriamente parlando, delirante.
Certo, Odile denuncia le faglie del sistema medico-giudiziario avvertito della pericolosità di suo marito. Durante questo percorso fa un buon incontro, con uno psichiatra che trova le parole persloggiarla dallʼeterna accusa in cui il gesto del marito lʼha intrappolata. Non aveva alternativa, ma una fatalità ineluttabile per la quale le era impossibile sia lasciarlo sia restare. Ed è con molte precauzioni che questo psy apre la porta a ciò che è lʼoggetto stesso del documentario: «Anche se siete mutilata dei vostri bambini, forse avete ancora davanti a voi la possibilità di essere felice nella vita». Questo incontro le permette di prendere consiglio per se stessa e di cercare di inventare un dopo.
Nellʼuso che Odile fa del significante-padrone «vittima» si scopre una funzione dialettica, che mira a rifiutare di essere accusata senza però rinunciare a costruire un sapere, come lo mostrano il modo di procedere del reportage e il suo impegno pubblico in più occasioni. È attenta ai drammi simili che ormai la riguardano, in quanto ella vi appoggia la sua questione: ma soprattutto, cerca di sapere come non esservi più incatenata.
Qui, essere «vittima» è rifiutare la stasi mortifera nella colpa ed è anche rifiutare di realizzare il voto mortifero dellʼAltro: essere distrutta per sempre, annientata. Poiché lei pensa di esservi condannata dallʼAltro, il cui sguardo resta importante: di coloro che si scandalizzano che non vesta di nero, o che riprenda a lavorare troppo presto, di coloro che bisbigliano che si sia già rifatta una vita. «È al ferro rovente che le si ricorda la sua condizione di vittima», dice la voce fuori campo del reportage. Esistere è una condanna, non esistere le sembra di negare ciò che è accaduto ai suoi bambini, che lei non arriva a realizzare. Uscire da questa impasse, in tutti i casi, per lei è anzitutto non tacerla.
Come lottare contro il destino? Il reportage non lo dice, esso filma solo questa lotta. Odile dirà, in unʼaltra intervista: «Ha ucciso i miei bambini. Non voglio che uccida me». Premunirsi di un delirio di colpa è un primo passo, ma ne serve un secondo. Dopo aver visionato questo reportage, si vorrebbe tendere la mano a Odile affinché lei trovi il coraggio di compierlo.
Traduzione di Marianna Matteoni
Note
[1] « Meurtre en famille », documentario diffuso su France 2 il 28 maggio 2013. Lo si può
vedere online al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?
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