Nella presentazione del tema del X Congresso dell’AMP che avrà luogo a Rio de Janeiro nel 2016 Jacques-Alain Miller apparentemente non mette l’accento sul transfert. Dico apparentemente, perché tutto il suo intervento sottende la questione seguente: come poter analizzare quando l’inconscio di Freud viene sostituito dal parlessere di Lacan? Cito J.-A. Miller: “analizzare il parlessere non è più esattamente la stessa cosa che analizzare l’inconscio nel
senso di Freud, e neppure l’inconscio strutturato come un linguaggio. Direi, anzi: scommettiamo che analizzare il parlessere è già quello che facciamo, dobbiamo però saperlo dire”. [1]
Nella presentazione di J.-A. Miller, il termine transfert appare solo in un rapido riferimento che lo riguarda direttamente come colui che è all’opera affinche si continui quel transfert di lavoro che caratterizza la nostra Scuola Una, e le cui pietre miliari sono i Congressi. Ma si tratta solo di lavoro in questo transfert? Alla mente mi sono ritornate le ultime frasi di Lacan quando aveva proposto a coloro che lo amano di seguirlo: l’amore è centrale nel transfert, e forse solo nel transfert l’amore è reale, almeno nel senso che là l’amore ricopre esattamente il suo ruolo: quello di venire al posto del rapporto sessuale che non c’è.
Ma come maneggiare un elemento così incandescente? Soprattutto quando non è affatto vero che l’amore di transfert è a senso unico, ossia dall’analizzante all’analista - Breuer per primo e Jung per decenni hanno concretamente illustrato che l’analista cade nella rete fantasmatica, più o meno inconscia, dell’analizzante, in misura non minore di quanto l’analizzante possa essere preso nella rete dell’amore di transfert rispetto alla funzione analista.
Sappiamo che Freud, scoprendo il transfert e l’amore che esso comportava, cercò di trincerarsi dietro quel positivismo scientifico che lo avrebbe protetto… da che cosa, da chi? E’ stata sufficiente una frasetta della giovane Dora perché egli si trovasse mandato via come un servo inetto. Per quanto riguarda Lacan possiamo dire senza ombra di dubbio che egli è stato un vero genio nell’arte del transfert. E sappiamo pure che non aveva freddo agli occhi, e che seppe affrontare la questione dell’amore come pochi sanno fare. E, direi, in un certo qual modo seppe affrontarla anche per noi.
Conosciamo tutti la sua soluzione, quella classica: il transfert è sì amore, ma se non si vuole ricadere nelle manifestazioni in auge in ogni infatuazione dai vari colori - romantico, tenero, sessuale, passionale - occorre che il filo transferale si agganci solidamente a un perno che permetta l’operazione analitica contro la stasi, l’inerzia, che è propria del discorso amoroso, almeno quando si crede ricoprire a sufficienza, o addirittura poter cancellare, il fatto che non c’è rapporto sessuale. Questa soluzione è chiamata da Lacan: soggetto-supposto-sapere. Tramite questa soluzione l’amore di transfert cede il passo al lavoro di transfert. Grazie a questa soluzione, senza troppi danni, abbiamo attraversato noi stessi e fatto attraversare coloro che ci affidano la loro parola i flutti del fiume sulla barchetta soggetto-supposto-sapere . Senza rinunciare affatto al soggetto-supposto-sapere, il transfert nel XXI° secolo richiede che si abbia a disposizione un’altra barchetta per attraversare il fiume anche a valle, ossia - per riprendere l’esempio di Freud - laddove l’Adige ha quasi completato il suo anello attorno alla città di Verona.
Che nome dare a quest’altra barchetta? J.-A. Miller aveva commentato a margine di un passo di Televisione che la funzione dell’analista si riassumeva nella formula: L’oggetto (a) incarnato . [2] A mio parere, è il nome dell’altra barchetta. Di questa formula, di solito, si pone l’accento sull’oggetto (a), di cui, si dice, l’analista, nella sua funzione, si fa semblant – termine in uso, eppure inventato da Lacan per un uso inedito, sebbene per noi italiani possa avere delle risonanze che si declinano dal ‘come se’ al ‘far finta’ (che sarebbe la traduzione corrente del faire semblant). Se si segue J.-A. Miller nel suo intervento, mi sembra che si possa dire che occorre invece accentuare l’altro termine: incarnazione. Termine che esclude ogni possibile finta. Nella rapida disamina che J.-A. Miller fa partendo da Cartesio, egli si sofferma sul termine husserliano di Leib che, differenziandosi da Körper , ossia dal corpo fisico, ci dà quel corpo umano vivente che Merleau-Ponty chiama chair, carne. Termine che Lacan riprenderà quando evoca la carne che porta l’impronta del segno. Tralascio qui il fatto che, a mio avviso non a caso, Lacan non ricorra alle risonanze propriamente teologiche di questa tematica. Ad ogni modo, il mistero dell’unione dell’anima e del corpo secondo Cartesio prende il volo verso il mistero dell’unione della parola e del corpo di Lacan. Da qui il termine ‘parlessere’, neologismo atto a dire questa misteriosa unione.
Tuttavia lo psicoanalista deve sapere che nell’attraversare con il suo analizzante il fiume con la sua nuova barchetta verso l’altra sponda egli avrà a che fare con dei flutti ancora più impetuosi e tumultuosi perché l’amore di transfert – a volte nella sua versione di odio - verrà più facilmente ad agitare le acque, senza più la copertura del pacificante soggetto-supposto-sapere.
Sarebbe comunque opportuno che lo psicoanalista non prenda fischi per fiaschi: se si presta a ricoprire la funzione di soggetto-supposto-sapere, egli sa tuttavia di non esserlo; ma per quanto riguarda il fatto di incarnare l’oggetto (a) egli non deve fare altro che realizzarlo, ossia renderlo ‘reale’. E’ in tal modo che uno psicoanalista si adopererà affiche l’analizzante possa attraversare il fiume e far sì che il parlessere, il corpo parlante, si accordi con i suoi due godimenti: il godimento della parola , quello che presiede all’instaurazione ma anche alla castrazione dello sgabello – scabeaustration, scabellostrazione, come dice carinamente Lacan [3] – e godimento del corpo, il quale sostiene il sinthomo.
Piccola nota finale: non vi sembra che tutto questo prolunghi la problematica dei godimenti delle formule della sessuazione? [4] Non si potrebbe forse rileggerli e riprenderli sotto i nomi di godimento della parola e godimento del corpo ? Ecco che cosa è stato per me l’intervento di J.-A. Miller: un mirabile sprazzo di luce sull’ultimo Lacan, tanto più necessario nella misura in cui Lacan fu, a dir poco, parco di indicazioni sulla pratica dei suoi ultimi anni di vita.
Nella presentazione di J.-A. Miller, il termine transfert appare solo in un rapido riferimento che lo riguarda direttamente come colui che è all’opera affinche si continui quel transfert di lavoro che caratterizza la nostra Scuola Una, e le cui pietre miliari sono i Congressi. Ma si tratta solo di lavoro in questo transfert? Alla mente mi sono ritornate le ultime frasi di Lacan quando aveva proposto a coloro che lo amano di seguirlo: l’amore è centrale nel transfert, e forse solo nel transfert l’amore è reale, almeno nel senso che là l’amore ricopre esattamente il suo ruolo: quello di venire al posto del rapporto sessuale che non c’è.
Ma come maneggiare un elemento così incandescente? Soprattutto quando non è affatto vero che l’amore di transfert è a senso unico, ossia dall’analizzante all’analista - Breuer per primo e Jung per decenni hanno concretamente illustrato che l’analista cade nella rete fantasmatica, più o meno inconscia, dell’analizzante, in misura non minore di quanto l’analizzante possa essere preso nella rete dell’amore di transfert rispetto alla funzione analista.
Sappiamo che Freud, scoprendo il transfert e l’amore che esso comportava, cercò di trincerarsi dietro quel positivismo scientifico che lo avrebbe protetto… da che cosa, da chi? E’ stata sufficiente una frasetta della giovane Dora perché egli si trovasse mandato via come un servo inetto. Per quanto riguarda Lacan possiamo dire senza ombra di dubbio che egli è stato un vero genio nell’arte del transfert. E sappiamo pure che non aveva freddo agli occhi, e che seppe affrontare la questione dell’amore come pochi sanno fare. E, direi, in un certo qual modo seppe affrontarla anche per noi.
Conosciamo tutti la sua soluzione, quella classica: il transfert è sì amore, ma se non si vuole ricadere nelle manifestazioni in auge in ogni infatuazione dai vari colori - romantico, tenero, sessuale, passionale - occorre che il filo transferale si agganci solidamente a un perno che permetta l’operazione analitica contro la stasi, l’inerzia, che è propria del discorso amoroso, almeno quando si crede ricoprire a sufficienza, o addirittura poter cancellare, il fatto che non c’è rapporto sessuale. Questa soluzione è chiamata da Lacan: soggetto-supposto-sapere. Tramite questa soluzione l’amore di transfert cede il passo al lavoro di transfert. Grazie a questa soluzione, senza troppi danni, abbiamo attraversato noi stessi e fatto attraversare coloro che ci affidano la loro parola i flutti del fiume sulla barchetta soggetto-supposto-sapere . Senza rinunciare affatto al soggetto-supposto-sapere, il transfert nel XXI° secolo richiede che si abbia a disposizione un’altra barchetta per attraversare il fiume anche a valle, ossia - per riprendere l’esempio di Freud - laddove l’Adige ha quasi completato il suo anello attorno alla città di Verona.
Che nome dare a quest’altra barchetta? J.-A. Miller aveva commentato a margine di un passo di Televisione che la funzione dell’analista si riassumeva nella formula: L’oggetto (a) incarnato . [2] A mio parere, è il nome dell’altra barchetta. Di questa formula, di solito, si pone l’accento sull’oggetto (a), di cui, si dice, l’analista, nella sua funzione, si fa semblant – termine in uso, eppure inventato da Lacan per un uso inedito, sebbene per noi italiani possa avere delle risonanze che si declinano dal ‘come se’ al ‘far finta’ (che sarebbe la traduzione corrente del faire semblant). Se si segue J.-A. Miller nel suo intervento, mi sembra che si possa dire che occorre invece accentuare l’altro termine: incarnazione. Termine che esclude ogni possibile finta. Nella rapida disamina che J.-A. Miller fa partendo da Cartesio, egli si sofferma sul termine husserliano di Leib che, differenziandosi da Körper , ossia dal corpo fisico, ci dà quel corpo umano vivente che Merleau-Ponty chiama chair, carne. Termine che Lacan riprenderà quando evoca la carne che porta l’impronta del segno. Tralascio qui il fatto che, a mio avviso non a caso, Lacan non ricorra alle risonanze propriamente teologiche di questa tematica. Ad ogni modo, il mistero dell’unione dell’anima e del corpo secondo Cartesio prende il volo verso il mistero dell’unione della parola e del corpo di Lacan. Da qui il termine ‘parlessere’, neologismo atto a dire questa misteriosa unione.
Tuttavia lo psicoanalista deve sapere che nell’attraversare con il suo analizzante il fiume con la sua nuova barchetta verso l’altra sponda egli avrà a che fare con dei flutti ancora più impetuosi e tumultuosi perché l’amore di transfert – a volte nella sua versione di odio - verrà più facilmente ad agitare le acque, senza più la copertura del pacificante soggetto-supposto-sapere.
Sarebbe comunque opportuno che lo psicoanalista non prenda fischi per fiaschi: se si presta a ricoprire la funzione di soggetto-supposto-sapere, egli sa tuttavia di non esserlo; ma per quanto riguarda il fatto di incarnare l’oggetto (a) egli non deve fare altro che realizzarlo, ossia renderlo ‘reale’. E’ in tal modo che uno psicoanalista si adopererà affiche l’analizzante possa attraversare il fiume e far sì che il parlessere, il corpo parlante, si accordi con i suoi due godimenti: il godimento della parola , quello che presiede all’instaurazione ma anche alla castrazione dello sgabello – scabeaustration, scabellostrazione, come dice carinamente Lacan [3] – e godimento del corpo, il quale sostiene il sinthomo.
Piccola nota finale: non vi sembra che tutto questo prolunghi la problematica dei godimenti delle formule della sessuazione? [4] Non si potrebbe forse rileggerli e riprenderli sotto i nomi di godimento della parola e godimento del corpo ? Ecco che cosa è stato per me l’intervento di J.-A. Miller: un mirabile sprazzo di luce sull’ultimo Lacan, tanto più necessario nella misura in cui Lacan fu, a dir poco, parco di indicazioni sulla pratica dei suoi ultimi anni di vita.
Note:
[1] Si veda l’intervento di J.-A. Miller sul sito dell’AMP.
[2] J.-A. Miller, in J. Lacan, “Televisione”, in Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 515.
[3] J. Lacan, “Joyce le Symptôme”, in Autres écrits, Seuil, Paris, 2001, p. 567; trad. it. “Joyce il Sintomo”, in Altri scritti , cit., p, 559.
[4] Cf. J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino, 2011, p. 73 sgg.
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